Ho incontrato Daniela un autunno, al corso annuale che tengo sul Make Up alla scuola di formazione per adulti. E’ un volto sconosciuto fra tanti. La prima lezione attira sempre molte donne: alcune sono lì solo per curiosità o perché ne hanno sentito parlare con entusiasmo da un’amica; altre sono arrivate in classe per caso, come Daniela.
Ha il volto magro, scavato, ma non ho il tempo di capire perché, devo presentare il programma e rispondere alle domande che mi vengono poste. Ho una scaletta precisa in mente che seguo scrupolosamente, e quando arrivo alla domanda “come mai sei qui?”, lei risponde che da giovane si truccava e le piaceva molto… poi, negli anni ha lasciato perdere, ma ora vorrebbe ricominciare a prendersi cura di se stessa. Sorrido. Non serve avere “un’età” per disinteressarsi al proprio aspetto. Chiede se è troppo vecchia per partecipare. La osservo meglio. Ha superato la sessantina, ma è una donna ordinata, distinta, di quelle di una volta, per intenderci. Però, qualcosa disturba quell’immagine… Ecco, adesso la metto a fuoco: gli occhi e il viso sono sofferenti, come di chi ha pianto molto. La invito a rimanere perché l’età non conta, basta avere un po’ di buona volontà e le chiedo anche di assistere alla presentazione del corso successivo, quello dedicato all’immagine. Forse potrebbe interessarle.
E’ iniziato così il percorso di Daniela: un lungo cammino di ricostruzione del se’. In principio stava in silenzio ad ascoltare, senza fare domande. Partecipava a tutte le lezioni: prendeva appunti quando serviva, ma mai una parola alla vicina di banco, mai un commento udibile. Poi, un giorno, finalmente ha parlato. Avevo invitato le allieve in studio da me per analizzare con calma, una alla volta, i loro colori personali: scelta del fondotinta, colore degli ombretti, ecc. Un passo importante prima di procedere agli acquisti. Non ho molto tempo libero dal lavoro ma la sera mi fermo volentieri anche fino a tardi, se serve. Quando è arrivata lei ero già molto stanca – erano passate da un pezzo le 21:00 – e contavo di finire abbastanza velocemente. Ci siamo prese un caffè d’orzo e abbiamo tirato fuori il beauty, ma Daniela era distratta, sembrava vogliosa di parlare d’altro, così l’ho assecondata. E’ bastato chiederle com’era andata la giornata per ritrovarmi travolta. Avevo rotto i fragili argini del fiume di lacrime che tratteneva a stento durante le lezioni. Daniela era vedova da un anno: il marito era morto dopo una lunga malattia dalla quale non aveva voluto farsi curare, nonostante le sue insistenze. Dopo la morte del marito si era ritrovata a gestire l’azienda di famiglia con 18 dipendenti, tutti uomini. Lei, così fragile e disperata, si è rimboccata le maniche, ha calato una maschera di cemento armato, ed è andata avanti. Il suo racconto è proseguito fino a mezzanotte senza interruzioni. Io facevo domande e lei raccontava: presente, passato, ricordi. Tutto si mischiava alle lacrime che scendevano copiose. Ero così presa che mi era persino passato il sonno. Sapevo che se stava aprendo il suo cuore in quel modo era perché ne aveva bisogno, ed io ero lì per aiutarla. A mezzanotte, mentre l’accompagnavo alla porta, sorrideva imbarazzata. Sì, era molto tardi, ma scherzando le dissi che dopo quella lezione privata avrei preteso da lei molto di più. Chiudo la porta e l’unica cosa che ho in testa è il letto!
Passa un mese. Una sera arrivo in classe, carica come al solito di pc, trolley, borsa, dispense e fotocopie per le allieve. Mi calo in scrivania e tiro fuori il registro, a occhi bassi, bofonchiando un “buonasera, chi mi va a prendere un caffè?”. Sento ridacchiare la classe e alzo lo sguardo. Chiedo se ci sono assenti e per tutta risposta sento una voce alle spalle: “Non dici niente del mio look?” Mi giro di tre quarti e vedo Daniela. Resto letteralmente a bocca aperta. Mi sorride, serena. Ha una strana luce negli occhi. E’ truccata in modo leggero, sui toni del rosa e indossa un bel tailleur pantalone blu marine ravvivato da una camicetta in seta di un tenue color rosa. Mi complimento con lei e, ovviamente, ironizzo sulla mia innata capacità di trasformare gli anatroccoli in cigni. La classe ride, sono abituate ai miei modi particolari, sanno che quando le strapazzo lo faccio a fin di bene.
A fine lezione, Daniela mi aspetta con altre ragazze in corridoio. Sorride e mi ringrazia per quanto ho fatto per lei. Cos’ho fatto? La guardo curiosa. E lei racconta di quella volta che è venuta nel mio studio e di come, nonostante fossi molto stanca, sia rimasta ad ascoltarla per ore, lasciandola sfogare, come fosse una seduta terapeutica. Quando è uscita dal mio studio, quella sera, si è sentita rinascere. Non ha avuto più bisogno di piangere sui ricordi. Aveva ritrovato se stessa e la voglia di vivere. Ero il “suo angelo”, l’avevo aiutata nel momento in cui aveva più bisogno, sicuramente ero stata mandata dal cielo. Mentre parlava, con quel sorriso meraviglioso, pensavo a quanto è bello il mio lavoro di insegnante: non lo cambierei con niente al mondo!